I SEM da banco Phenom della Thermo Scientific garantiscono velocità, facilità d’uso e altissime prestazioni. L’interfaccia utente intuitiva consente a qualsiasi utente di ottenere un’immagine SEM di altra qualità in pochi click. In aggiunta, tutti i SEM da banco Phenom supportano la spettroscopia a raggi X a dispersione di energia (abbreviata EDS o EDX), integrando l’imaging SEM con l’analisi elementale. L’identificazione univoca dei picchi, la quantificazione affidabile, i pacchetti applicativi personalizzati e la stretta integrazione hardware e software garantiscono un flusso di lavoro analitico completo, e risultati robusti che possono essere ottenuti con pochi click.
Informazioni analitiche ottenibili con SEM-EDS
L’Energy Dispersive X-ray Spectroscopy (EDS o EDX) consiste nell’analisi dei raggi X emessi dagli atomi del campione causata dall’interazione col fascio di elettroni emesso dal microscopio SEM. L’EDS è una tecnica comunemente utilizzata nella microscopia elettronica perché veloce, accurata e non distruttiva, ed è in grado di fornire informazioni qualitative e semi-quantitative sia in maniera puntuale che su aree più o meno estese del campione. Questo rende l’EDS molto interessante per diversi campi di ricerca come la metallurgia, la mineralogia e l’analisi delle superfici in genere. I SEM da banco Phenom forniscono una soluzione completamente integrata e automatizzata per l’analisi EDS su un’ampia varietà di campioni. L’elevata luminosità delle sorgenti CeB6 e FEG, in combinazione con la geometria dei detector e le soluzioni software utilizzate, rendono l’analisi EDS sui SEM da banco Phenom la soluzione analitica più affidabile per tutti gli operatori che desiderano risultati rapidi senza compromessi sulla qualità.
Cosa sono i segnali SEM? Da dove provengono?
Quando il fascio di elettroni colpisce il campione, ha luogo un numero crescente di interazioni man mano che gli elettroni penetrano nel materiale. In un SEM, i tre segnali più importanti ed utilizzati di frequente sono gli elettroni retrodiffusi, gli elettroni secondari ed i raggi X, come illustrato nella Figura 1. Non esiste una distinzione netta tra le profondità da cui è possibile rilevare determinati segnali, ma vengono generati in maniera statistica. In generale, i segnali a bassa energia hanno una minore probabilità di raggiungere la superficie rispetto a quelli ad alta energia.
Figura 1: Il tipico volume di interazione di un fascio di elettroni incidente ha una dimensione compresa tra uno e poche centinaia di micrometri cubi e dipende principalmente dalla tensione di accelerazione applicata al fascio. È possibile rilevare più segnali a diverse profondità; più vicino alla superficie vengono generati principalmente gli elettroni secondari, mentre più in profondità nel campione vengono generati principalmente i raggi X.
Gli elettroni secondari, generati in tutto il volume di interazione, possiedono un’energia relativamente bassa (di solito <50 eV) e quindi vengono rilevati tipicamente solo quelli emessi dalla superficie del campione, fornendo così informazioni topologiche superficali. Gli elettroni retrodiffusi, invece, derivano direttamente dal fascio di elettroni e fuoriescono dal campione tramite un processo di scattering, che dipende in larga misura dagli elementi che gli elettroni incontrano nel loro percorso in uscita dal campione. Ciò significa che dal segnale degli elettroni di retrodiffusi è possibile ottenere informazioni sulla composizione del materiale (Figura 2).
Figura 2: immagine SED (sinistra) e immagine BSD (destra) di una cella solare. Le differenze nelle informazioni osservabili sono chiare: l’immagine BSD fornisce contrasto elementare, mentre l’immagine SED mostra informazioni topologiche.
I raggi X vengono generati in un volume relativamente grande all’interno del campione e subiscono molte interazioni prima di fuoriuscire dalla superficie, la loro energia non è superiore all’energia del fascio di elettroni incidente. La comprensione di queste interazioni è fondamentale per l’interpretazione quantitativa degli spettri di raggi X.
Dai raggi X allo spettro
Il modello di Bohr è molto utile per comprendere come i raggi X vengono generati a seguito dell’interazione con gli elettroni del fascio primario. Come descritto nel modello di Bohr, gli elettroni si dispongono attorno al nucleo in shell che si differenziano per il livello energetico e vengono rinominate in ordine alfabetico a partire dalla K, dove K rappresenta la shell più vicina al nucleo dell’atomo, seguita dalle shell L, M ed N. In generale, le prime tre shell sono le più importanti per l’analisi dei raggi X. Il fascio di elettroni incidente eccita un elettrone, che si sposta da una shell di energia inferiore verso una superiore. Quando si ritorna allo stato energetico originale, più basso, viene emesso un raggio X che possiede un’energia discreta caratteristica, tipica per ogni atomo. Nella realtà esistono differenti gap energetici discreti tra le diverse shell e, ad eccezione della K, ogni shell ha più di un livello energetico. Le transizioni energetiche corrispondenti sono denominate con una combinazione di due lettere: la prima lettera indica la shell in cui l’elettrone ricade e la lettera greca successiva indica le righe in ordine di importanza (luminosità nello spettro). Quindi, le linee Kα e Kβ rappresentano un rilassamento verso la shell K a partire dai gusci L ed M. L’energia del fotone corrispondente emesso (raggio X) corrisponde alla differenza tra i livelli energetici, come illustrato schematicamente nella Figura 3. Il rilassamento verso la shell base può avvenire attraverso uno o più stadi intermedi. Supponiamo che un elettrone della shell K riceva un’energia sufficiente per trasferirsi nello stato M. In questo caso, il rilassamento potrebbe avvenire direttamente attraverso una transizione da questa shell M a quella K. Un’altra possibilità è che un elettrone della shell L intermedia possa riempire il posto vacante della K e, successivamente, un elettrone della shell M potrà riempire il posto vacante che appena creato nella shell L. Tutti questi eventi provocano l’emissione di un fotone con energia dipendente dalla transizione; l’energia del fotone (o dei fotoni) è sempre uguale alla differenza dei livelli energetici coinvolti.
Figura 3: rappresentazione schematica della ricaduta di elettroni a seguito dell’eccitazione dell’atomo causata da interazione con fascio di elettroni.
Rilevamento dei raggi X – i detector SDD
I raggi X emessi dal campione vengono raccolti dal detector EDX. Quando un raggio X colpisce il detector, genera una carica elettrica proporzionale all’energia del raggio. Questa carica viene convertita in un segnale elettrico, amplificato e digitalizzato, creando uno spettro che mostra l’intensità dei raggi X in funzione della loro energia. Lo spettro ottenuto consente di identificare gli elementi presenti nel campione, oltre ad effettuare un’analisi quantitativa.
I Silicon Drift Detectors (SDD) sono oggi ampiamente utilizzati per il rilevamento dei raggi X grazie alle loro prestazioni nettamente superiori rispetto ai vecchi Lithium Drifted Silicon detector, in virtù della maggiore capacità di gestire i segnali e risoluzione, oltre a migliori prestazioni nel rilevare elementi a basso peso atomico.
Gli SSD (Figura 4) sono costituiti da un’area di contatto frontale, una regione attiva composta da silicio ad alta resistività con uno strato di svuotamento e un anodo di raccolta. I raggi X incidenti sull’area di contatto frontale vengono assorbiti nella regione del Si e generano coppie elettrone-lacuna la cui quantità dipende dall’energia dei raggi X incidenti. Un campo elettrico applicato tra il contatto frontale e l’anodo fa sì che queste coppie elettrone-lacuna si spostino verso l’anodo. La carica accumulata all’anodo viene quindi convertita in una tensione da un preamplificatore. L’energia dei raggi X incidenti può quindi essere determinata monitorando la tensione a seguito di ogni impulso, ovvero dopo che ogni raggio X incidente è stato assorbito.
Figura 4: rappresentazione schematica del sensore di un Silicon Drift Detector.
Esiste un limite alla precisione con cui viene misurata questa tensione, che rappresenta una delle cause per le quali per una data energia viene elaborata una gaussiana anziché un picco discreto. La ragione principale dei picchi gaussiani, tuttavia, è la diffusione statistica sulle coppie elettrone-lacuna generate nel rivelatore dai raggi X in arrivo. Ciò significa che la larghezza di queste gaussiane dipende sia dal rivelatore che dall’energia coinvolta. Sebbene molti parametri definiscano le prestazioni complessive di un rivelatore, il parametro più utilizzato è la larghezza di questi picchi gaussiani, che definiscono la risoluzione del rivelatore. Per motivi pratici, i produttori di rivelatori EDS riportano il numero per il picco Kα del manganese, e questo è assurto a specifica standard. Per i rivelatori EDS Phenom, il valore Kα per il manganese è ≤132 eV, mentre per l’Axia corrisponde a ≤129 eV.
Oltre alla risoluzione di picco del manganese Kα, quando si valutano le prestazioni di un detector EDS è necessario considerare diversi altri parametri. Uno di questi è l’intervallo di elementi rilevabili nella tavola periodica. Un altro la dimensione del sensore, poiché la raccolta dei raggi X è proporzionale all’area del sensore attivo, e quindi rilevatori più grandi generano maggiore segnale. Per quanto riguarda la produttività, inoltre, deve essere considerata la velocità di conteggio, definita come numero di raggi X che lasciano il rilevatore per l’elaborazione. In genere però non più della metà di questi conteggi vengono utilizzati per l’identificazione e la quantificazione. Il parametro più rilevante da valutare è quindi il numero di segnali che lasciano il processore di impulsi digitali (DPP), poiché riflette le quantità di conteggi utili. Il sistema Phenom EDS utilizza un SDD da 25 mm2 (o 70 mm2 opzionale) con una velocità in uscita massima di 90.000 conteggi al secondo e una gamma di rilevamento dal Boro all’Americio.
Elaborazione dello spettro
Lo spettro EDX generato viene quindi elaborato, cercando la corrispondenza tra le energie picchi (cioè dei raggi X emessi dal campione) e le linee spettrali caratteristiche di ogni singolo elemento. Il software confronta perciò queste energie con una libreria di valori noti per assegnare i picchi agli elementi corrispondenti. L’intensità dei picchi può anche essere utilizzata per stimare la concentrazione degli elementi nel campione.
L’analisi SEM-EDS sui SEM da banco Phenom avviene tramite un flusso di lavoro completamente automatizzato, che per il fitting dello spettro utilizza un approccio di modellazione iterativa. Ciò significa che uno spettro sintetico viene mappato sullo spettro originale per identificare e quantificare gli elementi. Il processo è iterativo e convergente; vengono creati più spettri sintetici per trovare la corrispondenza più vicina possibile con lo spettro originale, come descritto nella Figura 5.
Figura 5: Il Phenom EDS utilizza un metodo di modellazione iterativo che genera uno spettro sintetico che viene confrontato con lo spettro originale finché non viene trovata la migliore corrispondenza complessiva. L’algoritmo corregge automaticamente tutti gli artefatti del rilevatore e durante l’acquisizione è disponibile il risultato finale completamente ottimizzato.
Correzione del background
Parte del processo di fitting include la correzione del rumore di fondo. Lo spettro EDS, infatti, presenta anche il segnale proveniente da elettroni che dissipano la propria energia all’interno del campione, senza generare picchi caratteristici. Questo background rende più complessa l’identificazione degli elementi e richiede quindi una correzione dello spettro per ottenere analisi qualitative e quantitative accurate. Questo processo non è semplice, dato che l’intensità del segnale non è uniforme perché gli elettroni che penetrano nel campione perdono gradualmente la propria energia, emettendo un continuum di raggi X lungo il loro percorso. Inoltre, la forma del rumore di fondo deve essere modellata anche in base all’energia del fascio primario, alla composizione del campione e al processo di rilevamento. L’algoritmo Phenom tiene conto di tutti questi fattori in modo che la correzione del background possa avvenire con la massima accuratezza.
Identificazione degli elementi
Nei SEM da banco Phenom l’identificazione degli elementi è completamente automatizzata. L’algoritmo Phenom utilizza una libreria di spettri che comprende molti database pubblicati e sottoposti a peer-review. L’uso di una libreria è un metodo conveniente. Tuttavia, non è sempre possibile associare in maniera univoca un elemento al picco presente in una determinata posizione, dato che spesso le energie caratteristiche degli atomi variano di poche decine di eV, valore inferiore alla risoluzione del rilevatore EDS.È quindi importante verificare per ogni elemento la presenza di altre linee di energia, ad esempio che un picco Kβ abbia un picco Kα corrispondente. L’algoritmo Phenom confronta lo spettro ottenuto con quello sintetico, eseguendo diverse iterazioni sull’intero intervallo di energia per trovare la migliore corrispondenza, garantendo così risultati più accurati.
Un altro fenomeno da tenere in considerazione è quello chiamato raccolta di carica incompleta, o semplicemente ICC. È dovuto al fatto che i raggi X che interagiscono vicino alla superficie del rilevatore generano un’energia che non viene misurata completamente, pertanto l’energia viene misurata risulta un po’ più bassa di quanto non sia in realtà. Ne soffrono in particolare i raggi X con energia inferiore a 750 eV, che non riescono a penetrare in profondità nel rilevatore, e generano quindi picchi con uno shift verso sinistra significativo. Per ovviare a questo problema viene di solito utilizzato un modello empirico in cui la parte a bassa energia dello spettro viene linearizzata eseguendo una calibrazione del carbonio, in modo che i picchi possano essere riposizionati dove ci si aspetterebbe. Tuttavia, l’ICC non è uno fenomeno di semplice entità, come mostrato nella Figura 6.
Figura 6: esempi di picchi Kα a bassa energia rilevanti, da sinistra a destra: CKα (279 eV), FKα (675 eV), MgKα (1.252 eV), SiKα (1.739 eV), ClKα (2.623 eV) e CaKα (3.693 eV). La curva nera è la gaussiana simulata per conteggi identici per tutti i picchi; poiché l’FWHM aumenta con l’energia, i picchi sono più piccoli a energie più elevate per mantenere costante l’area. Le curve rosse rappresentano gli stessi picchi con ICC applicato.
Si può notare che, per basse energie, il picco risultante appare come una forma più o meno gaussiana ma con un allargamento e uno spostamento verso sinistra; nel caso della Kα del C, fino a ~25 eV. Se le gaussiane nere vengono sottratte dai picchi rossi, rimarrà un residuo significativo, che molto probabilmente verrà identificato erroneamente come l’elemento immediatamente inferiore. La correzione ICC diventa sempre più importante man mano che la ricerca si sposta in ambiti in cui serve maggior sensibilità sugli elementi più leggeri.
Nell’interfaccia utente dei SEM da banco Phenom a partire dalla versione 1.7 la correzione ICC è attivata di default, e quindi non c’è bisogno di effettuare la calibrazione del carbonio, per un flusso di lavoro che garantisca risultati accurati in breve tempo.
Esistono altri due artefatti rilevanti che possono verificarsi durante il rilevamento dei raggi X: i picchi somma e picchi di fuga. Il primo si manifesta quando due fotoni ad alta intensità arrivano al detector nello stesso istante, con conseguente falso picco che possiede energia pari alla somma dei fotoni. I picchi somma possono avere origine sia dallo stesso elemento che da segnali provenienti da elementi diversi. I picchi di fuga invece si verificano quando un fotone incidente eccita il silicio nel rivelatore, per cui viene registrato un raggio X la cui energia è uguale a quella iniziale meno ~1,74 keV, corrispondente al picco Kα del Si.
In entrambi i casi gli artefatti vengono considerati negli spettri simulati e quindi vengono esclusi automaticamente dall’analisi del segnale.
Gestione degli elementi sovrapposti
Ci sono molti esempi noti in cui i picchi di diversi elementi si sovrappongono. Ad esempio, il Silicio (Kα1=1,739 keV) e il Tungsteno (Mα1=1,779) hanno una separazione di 40 eV, che è inferiore alla risoluzione del rivelatore EDS. La deconvoluzione è un approccio matematico che permette di separare i picchi sovrapposti e determinare il contributo di ogni singolo elemento alla forma del picco combinato. Come si può vedere nella Figura 7, l’algoritmo utilizzato sui SEM da banco Phenom risolve facilmente queste sovrapposizioni garantendo una quantificazione corretta.
Figura 7: Campione contenente flakes di W fusi in una matrice di Si puro. L’algoritmo Phenom può facilmente separare il picco sovrapposto di W Mα1 a 1,779 keV dal picco di Si Kα1 a 1,739 keV e quantificarli correttamente. Le percentuali rappresentano rispettivamente i pesi atomici.
Una volta acquisito lo spettro, viene effettuata una prima stima degli elementi e della loro intensità che viene utilizzata per generare un nuovo spettro con relativa composizione. Le concentrazioni vengono quindi variate fino a quando lo spettro sintetico non corrisponde il più possibile allo spettro osservato, dopodiché la corrispondenza migliore verrà riportata come risultato EDS finale. Questo approccio offre il vantaggio che la fisica e la matematica sono ora disaccoppiate; gli spettri sintetici dipendono solo dal processo fisico di formazione dei raggi X, mentre la matematica viene utilizzata per determinare minime differenze. Per simulare correttamente gli spettri, devono però essere considerati diversi effetti come descritto di seguito, e sono tutti integrati nel processo iterativo.
Matrici di correzione per la quantificazione
Le altezze dei picchi in uno spettro sono solo vagamente correlate alla concentrazione di un elemento nel campione. Si consideri l’esempio del fluoruro di stronzio (SrF2) rappresentato nella Figura 8. Mentre ci si può aspettare dalla stechiometria che il picco di F sia il doppio del picco di Sr, in realtà il picco di Sr contiene il doppio dei conteggi. Ci sono diversi fattori che devono essere presi in considerazione dal software per fornire informazioni quantitative accurate, per questo di solito vengono applicate delle correzioni di matrice.
Figura 8: una misurazione puntuale del fluoruro di stronzio mostra che le intensità dei picchi non sono quelle che ci si aspetterebbe dalla composizione stechiometrica, mentre la quantificazione è molto accurata.
I raggi X generati all’interno del campione viaggiano in tutte le direzioni e spesso vengono assorbiti a seguito dell’interazione con altri atomi. Quando un raggio X ha un’energia maggiore dell’energia di ionizzazione critica di una shell in un altro elemento, può essere assorbito e determinare l’emissione di un raggio X secondario. Questo processo è noto come fluorescenza secondaria ed è correlato al numero atomico Z dell’elemento. Gli elementi ad alto Z tendono a essere forti assorbitori, quindi sono necessarie grandi correzioni degli effetti di fluorescenza per gli elementi a basso Z contenuti in una matrice che presenta anche elementi ad alto Z. D’altro canto, gli atomi ad alto Z generano più raggi X, mentre la profondità di penetrazione del fascio di elettroni è ridotta. La somma netta di entrambi gli effetti è spesso indicata come correzione Z. La correzione per Z, assorbimento e fluorescenza (ZAF) viene eseguita automaticamente nel software Phenom sia per l’analisi puntuale che su linea. Le cosiddette funzioni φ(ρz) (Phi-Rho-Z) sono un’estensione della correzione ZAF e descrivono l’effetto delle modifiche sulla trasmissione dei raggi X attraverso il volume di interazione in funzione della tensione di accelerazione e della matrice che penetra. L’algoritmo Phenom utilizza l’algoritmo esteso di Pouchou e Pichour, in genere abbreviato come XPP.
La Mappatura Elementale
L’analisi EDS in modalità di mappatura impiega molto tempo dato che l’acquisizione dello spettro in ogni singolo pixel può richiedere fino a un secondo, il che rappresenta un problema quando si analizzano aree costituite anche da migliaia di pixel. Ciò comporta tempi di esecuzione incompatibili con dei tempi di analisi ragionevoli, quindi spesso nelle mappature si cerca di trovare un compromesso tra accuratezza e velocità. I SEM da banco Phenom registrano lo spettro EDX per ogni pixel e assicurano che i segnali sovrapposti siano adeguatamente deconvoluti, ciò significa che tutti i segnali appariranno come segnali diversi nella mappa elementare. Il vantaggio principale di questo approccio è che la composizione elementare di un’area può essere misurata in modo molto accurato senza compromettere la velocità. La Figura 9 mostra un caso reale, in cui è stata effettuata una mappatura di un filo in Tungsteno (W) allo scopo di evidenziare la presenza di gocce di vetro fuso (contenente Silicio). Grazie alla deconvoluzione dei picchi è possibile separare i due elementi che altrimenti risulterebbero avere la stessa distribuzione, a causa della sovrapposizione di alcune loro linee nello spettro.
Figura 9: le piccole goccioline di vetro (SiO2) su un filo di tungsteno sono un campione impegnativo per EDS a causa dei segnali sovrapposti di Si e W. L’algoritmo di mappatura Phenom può risolvere completamente questi segnali e addirittura essere utilizzato in ambito forense per chiarire se i fari di un’auto fossero accesi durante un incidente.
Correzione della deriva
A causa di effetti termici o mancanza di conduttività, i campioni esposti a un fascio di elettroni ad alta energia possono iniziare a driftare. Questo effetto è solitamente molto piccolo, ma quando si riprende un’area ingrandita di un campione per un periodo di tempo lungo (che è esattamente ciò che accade spesso quando si crea una mappa EDS), lo spostamento può ammontare a diversi pixel e può causare una discrepanza visibile tra l’immagine BSD o SE e la mappa EDS. La funzione drift correction nell’algoritmo compensa questa deriva misurando lo spostamento dell’immagine durante la mappatura e regolando la posizione del fascio al volo per fornire i risultati corretti (Figura 10).
Figura 10. Una saldatura PbSn ripresa in modalità mappe, senza (sinistra) e con (destra) funzione drift correction abilitata. Sulla destra, i bordi sono molto più nitidi.
Mappatura per Fasi (Phase Mapping)
Quando si analizzano materiali multifase complessi, diventa difficile interpretare tutte le possibili combinazioni di colori e determinare la composizione di materiali multielemento. La Figura 11a mostra una mappatura EDS di un materiale multifase, in questo caso un minerale. Alcune aree sono decisamente ricche di zolfo o potassio, ma per la maggior parte degli elementi è difficile individuarne la distribuzione perché molti di essi sono presenti su tutta la superficie del campione. Quando vengono sovrapposti più colori, l’immagine risultata complicata da interpretare: alcune aree sono chiaramente blu, mentre altre sono più gialle con una sfumatura di blu.
La soluzione a questo problema è calcolare le fasi presenti nel materiale. Per fare questo si utilizza una tecnica chiamata analisi delle componenti principali, che semplifica un set di dati analitici evidenziando tendenze potenzialmente nascoste. Le mappe basate sull’analisi EDS contengono dati spettrali per ogni pixel. Quando si calcolano le fasi chimiche, i pixel vengono raggruppati in base alla somiglianza di questi dati spettrali. Di conseguenza, i pixel con spettri simili verranno combinati nella stessa fase, indipendentemente dai risultati della quantificazione. Il risultato (Figura 11b) è più facile da interpretare poiché ogni fase è mostrata in un colore univoco. Quando si osserva il minerale, è ora evidente che il campione contiene quattro fasi principali insieme a cinque minori.
Figura 11a e 11b: Risultati della mappatura EDS di un minerale. Visualizzare la distribuzione elementare di un minerale multifase è difficile a causa dell’ambiguità nell’interpretazione delle varie combinazioni di colori. La mappatura delle fasi (Phase Mapping) semplifica notevolmente il set di dati, facilitando l’interpretazione dei risultati.
Imaging chimico Live (ChemiSEM)
La mappatura EDS di solito produce un risultato statico: l’operatore esamina un campione, trova una zona di interesse e poi analizza l’intera area. A volte questo processo richiede l’utilizzo di due monitor e rispettivi software, uno per la gestione dell’imaging ed un secondo per quella dell’EDS, rendendo il workflow ancora più farraginoso. Gli ultimi progressi nella mappatura EDS consentono oggi di eseguire l’analisi in tempo reale. Semplicemente premendo di un pulsante, l’immagine SEM viene colorata in base alla composizione elementare (Figura 12).
Figura 12: analisi ChemiSEM di un minerale.
La tecnologia ChemiSEM presente sui SEM da banco Phenom consente di navigare sul campione osservando al tempo stesso le informazioni morfologiche e quelle composizionali, mettendo insieme imaging ed EDX senza soluzione di continuità. Ancora prima di effettuare un’analisi approfondita su un eventuale punto di interesse, è possibile ottenere informazioni sulla composizione in ogni punto della superficie del campione.
Analisi EDX Automatizzata
Un numero sempre maggiore di aziende sta implementando internamente sistemi di microscopia elettronica a scansione (SEM). Questa tendenza all’internalizzazione dell’analisi, in contrasto all’outsourcing, sta crescendo anche grazie alla possibilità di effettuare analisi automatizzate che permettano un controllo qualità tempestivo e accurato, prerequisiti fondamentale per la produzione odierna. Il SEM da banco Phenom ParticleX offre la capacità di eseguire analisi e classificazioni dei materiali, supportando la produzione con dati rapidi, accurati e affidabili. Esempi tipici di analisi automatizzata di campioni multipli sono il monitoraggio delle caratteristiche critiche delle polveri metalliche, l’identificazione della distribuzione delle dimensioni delle particelle, il rilevamento di particelle estranee e la morfologia delle singole particelle. Da una scena del crimine, i campioni forensi devono essere controllati per la presenza di residui di polvere da sparo (GSR) e i risultati devono essere inequivocabili. In questi esempi, il numero di campioni non può essere un fattore limitante, quindi è necessario un metodo veloce e affidabile.
Figura 13: esempio di applicazione del software ParticleX per la ricerca automatizzata di particelle di residui di polveri da sparo (GSR). Una volta impostata la ricetta d’analisi è possibile far analizzare automaticamente uno o più campioni per ottenere informazioni su forma, dimensione e composizione delle particelle.
Se vuoi approfondire la tecnica EDS, leggi i due approfondimenti dedicati, EDS sui SEM Phenom da banco e EDS per il SEM Phenom da banco, oppure contattaci per saperne di più e provare i SEM Phenom.